Processo alla pace
Un campione quale Aaron Sorkin si mette in proprio, almeno un decennio dopo l’offerta di Spielberg, per filmare la storia dei Chicago Seven, il gruppo di sette attivisti – ai quali fu aggiunto pure il leader delle Black Panthers Bobby Seale – accusati di aver incitato alla rivolta e cospirazione i manifestanti nel 1968, durante il congresso del partito democratico proprio nella windy city. Il dibattito risulterà una farsa epica, dato che gli imputati sono colpevoli ed incriminati alla pena ancor prima che l’azione giudiziaria abbia inizio, tipico atteggiamento ostile nella storia dell’establishment a stelle e strisce.
Il grandioso sceneggiatore perciò, decide di impugnare la cinepresa e dirigere autonomamente un avvenimento di importanza basilare per capire un’epoca indimenticabile ma tuttora in auge, che contrappone cioè la consueta politica interventista americana alle proteste pacifiche e sociali sull’invio dei soldati, in questo caso la permanenza, nelle zone di guerra (Vietnam), aggiungendo – anch’esso argomento iper attuale – l’ordinario atteggiamento ostile di chi comanda le forze dell’ordine a usare forza e repressione!
Il montaggio variegato, la regia alternata e spesso indietro nel tempo e una musica importante ma limitata ad accompagnare proteste e cortei, senza scortare la narrazione con invadenti hit del periodo, cedono campo a dei dialoghi assolutamente perfetti, come la tradizione Sorkin vuole, grazie ai quali qualunque star in doppia cifra può gioire nell’elevare le peculiarità caratteriali del proprio personaggio.
Il direttore d’orchestra sa benissimo di irrompere in un terreno minato, fatto di infiniti predecessori cinematografici, cercando dunque di non forzare troppo la mano nei duelli processuali, colmi di zuffe costanti fra duellanti, mantenendo da un lato la distanza verso un film prettamente teatrale e parlato esclusivamente all’interno del tribunale, ma evitando anche di fallire nella smodata esaltazione della incerta coesione dei gruppi ribelli, dichiarandosi quindi neutrale fra figli dei fiori, pantere nere, diplomatici oratori, futuri politicanti o avvocati impavidi, puntando a combattere quale unico nemico il modus operandi governativo statunitense, che sia Lyndon Johnson o Richard Nixon il presidente.
Infatti, quel che rimane ostinatamente nell’aria fino al termine della pellicola, è un velato e provocante sottofondo ironico, quasi comico, a dispetto invece di una vicenda drammatica, che ottiene però l’obiettivo di restituire giustizia a un episodio determinante sulle repressioni sociali, sia violente che legali, dove botte, imbavagli, manette e intimazioni erano all’ordine del giorno nella “terra dei sogni”, ridicolizzando in maniera caricaturale il continuo bigottismo della classe dirigente stars and stripes, che si nasconde dietro a bandiere patriottiche per decidere invasioni planetarie, altresì proficue unicamente a rimpinguare l’economia delle lobby parastatali!
Ovvio, per ottenere gli effetti desiderati, Sorkin non poteva che avvalersi di una produzione sfavillante e godere di un top cast corale, sul quale imbastire la propria opera, certamente in orbita Oscar 2021, nella quale risalta Sacha Baron Cohen, hippie ardimentoso e meritevole adesso di contendere premi rilevanti a Hollywood. Commoventi inoltre risulteranno gli scontri da Tony Award fra il conservativo e autocrate, quasi despota difensore della patria Frank Langella e quello dei diritti collettivi Mark Rylance, la tenace pure se pacata e poi redenta accusa di Joseph Gordon-Levitt e il feroce e fugace ingresso in scena di Michael Keaton. Unico sopra le righe Eddie Redmayne, che rappresenta Tom Hayden eccessivamente esagerato nel trattenere la foga, e quindi dopo non credibile quando c’è da esplodere.
La scelta tecnica di Sorkin è certamente giusta e mirata, e poco importa se questo lungometraggio avrà action insufficiente che magari Steven Spielberg sarebbe giunto a proporre; la meta terminale era quella di raccontare una vicissitudine triste, accaduta negli anni dove il mondo era prossimo all’epocale cambiamento, combattendo per emergere e riscattare le periodiche vessazioni gerarchiche, presenti sin dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Lo ha fatto senza divagazioni, ragguagliando un arco narrativo in modo semplice, riuscendo comunque a prendere le difese delle minoranze civili e della libertà di pensiero!