Il lato più forte di una star minore
Lucille Ball rappresenta finanche oggi l’anti stereotipo per eccellenza dello star system hollywoodiano, a causa di un’abnorme filmografia principalmente impegnata nei B Movies delle ancestrali epoche pre metà secolo scorso.
Il fatto che tuttora venga però ricordata e citata dalla stragrande maggioranza dei cineasti d’elite per l’inusuale comicità interiore, abbinata a una personalità fuori dal comune – ancor di più se al femminile – in periodi da caccia alle streghe, giustifica dunque l’interesse di un maestoso bopic teller quale Aaron Sorkin.
La sua magica penna colpisce ancora una volta, premiando la divina Nicole Kidman dell’ennesimo riconoscimento di una carriera importante, improvvisamente risvegliata dai fasti di Rabbit Hole e mai più fermatasi fino ad oggi.
Alla terza direzione in regia, l’istrionico drammaturgo newyorchese per raccontarne le gesta e il forte carattere prende spunto dalla famosa sitcom I Love Lucy (1951/1957), nella quale la a quel punto attempata e matura attrice divideva il piccolo schermo col marito Desi Arnaz, un ottimo Javier Bardem sebbene troppo spesso messo in disparte da una narrazione a senso unico, esule cubano anni 30 e one man show brillante in recitazione, comicità e musica, nonché amante del sesso debole dal quale essere costantemente corteggiato!
Così facendo l’esaltazione di un’indole dominante e risolutiva trova giustificato interesse, dato che a 40 anni suonati la Ball si trovò d’un tratto ad affrontare una carriera prossima allo spegnimento e dunque a dover centellinare e azzeccare nuovi ruoli per non cadere nell’oblio mediatico, a contrastare la regia della serie TV sui Ricardos, dal suo punto di vista scarna e perciò insoddisfacente, e a sobbarcarsi il peso di tradimenti quasi giustificati di un consorte sì premuroso e accondiscendente, ma affascinante in modo smisurato per il periodo di riferimento.
Dulcis in fundo le accuse di simpatie comuniste ponevano la Ball in continuo imbarazzo sui giornali, che riempivano le pagine gossip assieme alle pseudo liaison del coniuge.
La sceneggiatura forte e portentosa di Sorkin e l’acting risoluto della Kidman esaltano la bellezza esteriore e intrinseca di un’attrice fuori dal comune, alta, sensuale e capace di calarsi benissimo nella femme fatale che si andava palesando, elevandone però come detto solo la sicurezza dei propri mezzi, forse addirittura non giustificata visto il curriculum prettamente dimesso, ma linfa vitale per legittimare il ruolo di reginetta televisiva che le si stava appiccicando addosso e ottenuto combattendo con unghie e denti.
Tutto ciò rende quest’opera talmente autobiografica da escludere quasi ogni tipo di empatia verso il circondario della Ball nonché della sua anima, invece certamente sofferente per un mondo occluso riguardo la femminilità al potere, qualunque essa fosse, per i continui capovolgimenti emotivi da moglie tradita e per un paese così marcio da sbarrare le opportunità a chi schierato al contrario.
Lo sceneggiatore vede la sua eroina in un modo esclusivo e dirompente, scegliendo perciò di attaccarle la figura possente di paladina al femminile ante litteram, impedendo tuttavia e purtroppo qualunque tipo di coinvolgimento emotivo da parte di chi segue, quindi troppo distaccato e alienato per farle il tifo e darle conforto.
La scrittura di Sorkin dà a questo film comunque un pregio enorme, quello di raccontare velocemente nonostante le due ore e passa di proiezione prettamente biografica, didascalica e quasi documentaristica, tutti i sotterfugi che abitavano gli Studios dagli anni 30 in poi, sia politici, sentimentali che cinematografici, e le numerose porte in faccia che la RKO e sodali non si vergognavano a sbattere, distruggendo carriere e vite in un attimo.
Per questo il regista supera per l’ennesima volta l’esame, sfruttando un’abilità fuori dal comune nel rendere i propri biopic movie dei viaggi narrativi scorrevoli, fluidi e spigliati.