La mira non perfetta di David Fincher
Michael Fassbender è il sicario maledetto di David Fincher, meticoloso quanto freddo, cinico e spudoratamente immorale.
Il suo compito è uccidere su commissione, senza chiedere nulla se non coordinate precise; ogni esecuzione è un atto di maniacale concentrazione fra se stesso, la propria arma e le vittime di turno.
La voce narrante nonché claustrofobica ha il merito di accentuare sia pathos su ciò che di lì a breve sta per accadere che la routine a cui il killer è abituato a sottostare durante il rituale omicida. Ed ecco che yoga, gli Smiths rigorosamente in cuffia, McDonald, telefono costantemente a portata di mano e finestra di fronte sono gli abituali commensali del suo banchetto: una sorta di spettrale ma pure spettacolare auto celebrazione del male e di una mente interamente alienata verso l’esterno.
La definitiva assenza di empatia per il mondo a lui estraneo gli danno un vantaggio enorme in concentrazione, ragion per cui la sua infallibilità non può che emergere sempre.
C’è però poi l’intoppo che non ti aspetti e che gela un’importante e fascinosa lunga sequenza preparatoria, trasformandola di lì in avanti in una fuga da se stesso e da una quasi liturgica tradizione delittuosa.
Il regista a questo punto vira e mischia un ansiolitico prologo noir verso una storia di scappatoie continue che metteranno alla prova il proprio killer, esaltandone – qui sì – un’avidità d’animo su chi lo sfrutta e tradisce ma anche passione recondita nei confronti di chi (sembra difficile crederlo) lo ama e si fida di lui.
Stati Uniti, Parigi e Repubblica Dominicana sono alcune delle dispersioni interiori nelle quali il cecchino di Fassbender farà visita per una resa dei conti imprevista e poi forse un po’ troppo scontata, dato che se fino a quel punto una completa carenza di umanità fa escludere qualunque tipo di pietosa passione, ecco che improvvisamente lo scopo del sicario diviene invece quello di resettare chi ha fatto del male ai suoi intimi.
Forse il limite di questa opera sta proprio qui, nel voler a tutti i costi umanizzare il villain di turno, perfetto nella scaltra e solita postura cinica di Fassbender, laconico mentre lascia sfogare i “colleghi” in religioso silenzio per poi giustiziarli senza prima averne hackerato e clonato segreti e trucchi, ma poi imperfetto nel rischiare la vita a favore di altri ed arrivare perfino ad immaginare una lauta, meritata ma anche impossibile pensione anticipata.
La penuria di emozioni che coincide perfettamente con la drammatica ma fredda bellezza esteriore del protagonista, il razionalismo unito a concentrazione dei minimi dettagli palesano infatti perfettamente il suo codice regolamentare, ma l’errore fatale ed elementare che devia l’opera verso lidi confusi sa tanto di escamotage hollywoodiano che disorienta chi segue e lo allontana dal – pregevole – progetto iniziale.
Per non parlare della donna a cui sostanzialmente concede (concederà?) il proprio futuro, talmente sconosciuta e anonima da non far capire se rappresenti amore o un semplice pegno di lealtà.
Tutto ciò fa si che l’ineccepibile mira tanto decantata dalla narrazione subisca due brutte frenate che faranno dubitare sino al termine su quale fosse lo scopo originario di regia e arco narrativo.