Un po’ voyeur lo siamo tutti. Wonderwall di questa seducente occupazione ne ha fatto un film. Al limite tra un lungo e raffinato video psichedelico e un bizzarro oggetto d’arte deliziosamente di serie B (+ +), in uno stile ascetico di poche parole e nel turbinio di immagini fluorescenti, il semi-sconosciuto Joe Massot, realizza nel ’68 un lungometraggio che sembra anticipare il più spinto cult pornografico Dietro la Porta verde del ’72. Ma qui l’eccitazione è soltanto visivamente fantasmata, con figure acquatiche e sfuggenti, colpi d’occhio successivi, inabissati poi in un vortice variopinto, gocce di intensa ebbrezza. Sulle note del sitar e di mistici strumenti indiani percossi, soffiati, agitati da un George Harrison ispirato da Krishna, il trip cosmico e sensoriale è assicurato. Il tutto si sposa alla voce di fondo dell’organo, immancabile, in pieno spirito Swinging London.
La voglia si innesca e il desiderio si discioglie nel corpo. All’origine di tutto: un muro. Macchiettistico, fumettistico, giocoso, estetico, simbolico, magnetico – Wonderwall è un film sulla preziosità delle sensazioni, un viaggio nella curiosità di chi spia dal buco di una serratura e si ritrova spettatore di cose proibite e sconosciute. E trema, preso dagli spasmi di un’incontenibile e silenziosa euforia.
Al di là del muro c’è la meraviglia, c’è lo scoppio floreale e catarifrangente di mille farfalle e colori, della pelle morbida e danzante di giovani ragazze dalle labbra color pastello. Occhi ammiccanti e pose da gatta, palpebre argentate, astrali, sete fruscianti, capelli lunghi e fluenti – Jane Birkin è la regina di questo covo ovattato che si affaccia sullo spazio aperto di viaggi cangianti. Stupefacente – come le droghe con cui banchettano i personaggi très cool che frequentano l’antro della sibilla.
Alas! Noi siamo al di qua del muro con uno scienziato (Jack MacGowran) eccentrico e solitario che vive in compagnia di una mantide religiosa, un bambino mai cresciuto, perseguitato da allucinazioni del biasimo materno in carrozzella.
Eureka! Mentre lavora con microscopio e vetrini, lo scienziato per puro caso scopre un luogo fatato oltre una delle quattro mura che lo imprigionano nel suo logoro appartamento. D’altronde, le più importanti scoperte anche i più grandi sapienti le han fatte per caso. Con lui, finiamo assuefatti nella visione di un mondo inaccessibile che odora di spezie in combustione e che si muove al ritmo lento e ancheggiante delle onde di fumo.
Un paio di buchi al muro e lo spettacolo è assicurato. Caduto nell’incanto della principessa, lo scienziato si smarrirà nella contemplazione estatica di quella pericolosa bellezza.
Penny Lane è il nome della luminosa creatura, una modella che ha una relazione con il suo fotografo (Quarrier), un tizio vistoso che se la spassa alla grande. Lo scienziato è testimone degli ingiusti tradimenti dell’ingrato ragazzo. Sarà una lotta spirituale tra l’intelligenza e la mondanità, la devozione e l’indifferenza.
Mentre il suo appartamento si accumula di polvere e il frigorifero resta vuoto per giorni, con tutta l’allure di un cartoon di Hanna-Barbera, lo scienziato si arrampica in rocambolesche avventure, fantasticate o maldestramente vissute. Massot gioca di apparizioni e di sogni, forse più fortunato e ispirato in quest’impresa che nella successiva The song remains the same, un film con i Led Zeppelin nato dalle riprese dei loro concerti a New York nel Madison Square Garden. All’occasione Massot non aveva con sé una quantità sufficiente di pellicola e non immortalò alcuni momenti salienti del concerto. Fu in seguito amaramente licenziato e rimpiazzato.
Infine: un cappello a cilindro e un vistoso mantello foderato di rosso per planare nel luogo proibito.
Dal sapore gautieriano (vedi Le Roi Candaule) si tesse liquido una sorta di mito in cui infrangere la barriera dell’ignoto diventa quasi fatale.
Colpo di scena – spiare per credere.