La tristezza di essere un “villain”
La bruttezza e ipocrisia della società attuale vengono raccontate nello spaccato di una surreale ma similare Gotham City, prima dell’avvento del supereroe pipistrello. La politica infatti è anche qui carente, i ricchi si ergono a salvatori della patria, i servizi pubblici scarseggiano, gli ultimi non hanno vie di sbocco e bullismo e prepotenza la fanno da padroni. Gli Yuppies anni 80 inoltre, pure da queste parti lavorano sodo durante la giornata, guadagnandosi lauti stipendi e ottenendo enormi soddisfazioni personali, ma dopo cena si sballano in giacca e cravatta prendendosela con donne in metro o barboni per strada.
Ad affrontare l’American Psycho di Christian Bale dunque, si innalzerà Arthur Fleck, prototipo primordiale del serial killer modello, quello che prima di esplodere rabbia e veemenza abbozza in silenzio, riflette, capisce minuziosamente quali sono i nemici e poi li colpisce uno ad uno. Soprattutto la sua psicologia, il passato e le ombre sono negative e traumatiche non per colpa propria ma per un’infanzia mai vissuta o al massimo infelice. Le polemiche sul film di Todd Phillips e in particolare sulla scrittura “violenta”, intesa come morbosa pratica esaltante della brutalità psicofisica del protagonista, stanno infatti nel voler quasi giustificare le reazioni impetuose del suo Joker, impersonato da un Joaquin Phoenix – clamoroso a dirsi vista la magnifica filmografia – nel lifetime rule e probabilmente al canto del cigno, per quanto concerne intensità e improvvisazione.
Purtroppo l’amara verità, che innalzerà il pagliaccio di Arthur a simbolo di una rivolta civile, è che i mostri presenti nei secoli di ogni civiltà, gli assassini o gli spostati di turno, nascono tali in una sorta di aggressività latente e introspettiva, ma scoppiano verso l’estrema eversione per colpa di una collettività che non concede loro valvole di sfogo e ripresa. L’omaggio al Rupert Pupkin di Scorsese ci sta tutto e l’uguaglianza fra i due è spiccicata. Se l’antieroe di Re per una Notte non “splattera” nessuno è semplicemente perché ottiene ciò di cui ha bisogno, a differenza di Arthur: superare la border line che impedisce ad un ultimo represso e accantonato dalla vita di salire sul carro della celebrità e redenzione, più che verso gli altri verso se stesso. Pure lì c’è una mamma opprimente, un mito da odiare/imitare, molteplici difficoltà sociali e lavorative ed una violenza contenuta ma pronta a deflagrare in ogni istante.
La splendida fotografia di Lawrence Sher crea una City ancor più dark dei racconti DC e collima in modo perfetto con le inquadrature che il regista effettua nei meravigliosi campi lunghi, specializzati in questo caso a farci ricordare la New York notturna di Taxi Driver, mai così noir. Phillips inoltre, si avvale della propria esperienza da comedy maker di livello, dando perciò ampio risalto nella sua sceneggiatura alla magistrale capacità di Phoenix di impersonare qualunque cosa, riuscendo a trasformare l’unico e ambiguo sguardo del villain in un miscuglio di sensazioni caratteriali diverse. Ciò che un po’ manca nel soggetto è una giustificazione più convincente del repentino cambiamento e metamorfosi da Arthur a Joker, allorquando si passa da isterici e continui pianti, risate, strilla e profondi pensieri tuttavia soltanto introspettivi, alla freddezza dell’esecutore “Tarantiniano”, che non risparmia nessuno, dai colleghi svegli e smaliziati fino all’adorata mamma malata, scopo esclusivo della sua vita, graziando dalla sua furia perciò solamente a chi società e vita hanno riservato lo stesso trattamento, che siano nani sbeffeggiati o ragazze isolate e abbandonate, a meno che quest’ultime non rappresentino solamente sogni e fantasie.
I primi piani sul protagonista valgono da soli la perfezione della pellicola, carpendone tutte le sensazioni, i sospiri, gli umori e i tormenti dell’animo, però portandoci purtroppo a fare il tifo per lui, criminale sociopatico camuffato da supereroe contro l’ingiusta società moderna.