Le tacite oppressioni per emergere al femminile
La bomba Weinstein ha aperto gli orizzonti e le coscienze di parecchi story teller, alcuni dei quali caparbiamente e forse ipocritamente gettatisi perciò a capofitto sul drammatico argomento. Chi meglio di Jay Roach poteva rappresentare un racconto sui generis, lui recentemente impegnato in losche trame su pseudo ideali politici, caccia alle streghe o spietate lotte interiori ed interne a management vari a suon di voti per elezioni presidenziali? La sua filmografia lo elegge infatti a perfetto film maker da truppa collettiva, abile ad aprire le porte e lasciare briglia sciolte ad impavide interpretazioni, limitandosi a dirigere didascalicamente ogni suo lavoro. A queste condizioni dunque, dopo Julianne Moore, Woody Harrelson, Ed Harris, Sarah Paulson e Bryan Cranston, tocca ad un eccellente cast corale trovare la consacrazione in questo interessante e sulla carta sconvolgente “Bombshell – La Voce dello Scandalo”.
La cronaca narrativa è incentrata sul riprovevole caso Fox News e successiva caduta di Roger Ailes, direttore, fondatore, controllore e una sorta di grande fratello e one man show di tutta la baracca, abituato dopo decenni di comando a ispezionare e gestire ancora in autonomia tutte le situazioni interne della ditta, dal vestiario dei dipendenti fino alla messa in onda di un TG, aiutato economicamente niente meno che da un magnate come Rupert Murdoch. Nessuno sa però che il boss ha il vizietto di selezionare il personale femminile non solo in base alla bravura, ma soprattutto tenendo conto delle avvenenze fisiche e le volontà ad aprirsi verso di lui e i suoi solidali, nel modo più indegno e ignobile che ci sia, pena licenziamento o allontanamento da qualunque professione giornalistica o televisiva. Il coraggio a parlare, man mano che le violenze si protrarranno nel tempo, porterà alla rimozione dell’uomo e in pratica al crollo mediatico della società.
La pellicola viene divisa in due fasi, quella immediata della descrizione meticolosa di ogni angolo dell’ente per mano di un’ottima Charlize Theron, conciata a mo’ di Megyn Kelly, inizializzando così lo spettatore in modo recondito all’interno delle stanze di comando e non, e quella dell’introspettiva battaglia individuale ad uscire fuori dal coro e confessare i misfatti del passato! Lo stacco tra questi gradini talmente lontani e distanti tra loro è purtroppo grossolanamente enorme e la trait d’union risulta completamente assente, dando a fine riprese l’idea di aver assistito a due lungometraggi separati.
Bellissima, ansiolitica e frenetica è difatti la prima parte, nella quale il funzionamento di un know how aziendale e dirigenziale viene spiegato nei minimi dettagli, riportando alla mente più che un prossimo e tragico dramma l’ennesima trasposizione sugli spietati – ma leciti – regolamenti velati che si celano all’interno di ogni amministrazione mangia soldi, che sia un covo di squali broker alla “The Wolf of Wall Street” o un rifugio di giornalisti a caccia di scoop ma magnanimi e onesti intellettualmente tipo “The Newsroom”. Lo stesso Roger viene trasfigurato similmente a un duro secondo padre che intavola a fin di bene qualunque carriera gli si faccia di fronte anziché un mostro da ripudiare, e le porcherie alle quali ha fatto, fa e farà sottostare le proprie subordinate vengono solamente sfiorate e silenziate.
A parte il “colloquio” con Margot Robbie/Kayla che rivela il fattaccio, il secondo stadio del film non è altro che un rincorrersi l’una con l’altra alla ricerca della verità comune che inchiodi l’orco, cercando di superare la (a quel punto ovvia) omertà di chi è ormai a bordo della nave. Non sono altresì credibili o meglio non bastano per avere il ruolo di apritori di brecce i commenti sessisti verso le aggraziate presentatrici o quelli diffamatori al femminile di Trump, semplicemente perché arrivati parecchio dopo le turbe psicofisiche incassate. Tutto ciò lascia chi osserva con un senso di incompiutezza per non aver visto arrivare fino in fondo una forte denuncia sociale su un mondo oggi scoperchiato e duramente provato dalle numerose accuse di stupro cinematografico e televisivo.
Le perfette interpretazioni delle dive ingaggiate e di un pregevole John Lithgow, spettacolarmente truccati da un make up miracoloso, seguono anch’esse i probabili ordini di scuderia, esaltandosi nei rispettivi dialoghi affidati loro da Charles Randolph, lasciando però le vittime a tanto così dall’esplodere ma a mantenere poi una postura al limite del calmo e glaciale, nonostante gli atroci segreti dell’animo, e il vecchio magnate a sparire di scena quasi dignitosamente, senza la giusta dose di vergogna e disonore.
Questa pellicola, la prima post Weinstein per importanza e budget, non porta a compimento l’opera per la quale era stata pensata, rimanendo in disparte ed esponendosi poco, descrivendo solamente in modo didattico e astratto un’ingiustizia trentennale perpetrata ai danni di numerose donne innocenti.