Finalmente Jesus
Non sarà un Lebowski 2.0 ma per i malati di Dudeismo rivivere l’aria e l’atmosfera del mito che i diabolici Coen ci regalarono anni or sono è oro colato. John Turturro infatti ottiene il beneplacito dai genialoidi fratelli per riportare e amplificare sul maxischermo la vita a tutto tondo di Jesus Quintana, alter ego sul parquet da bowling dell’iconico Jeff, approfondendone le caratterizzazioni solamente sfumate da quella mitica entrata e uscita dalla scena, fatta di leccata sulla palla e sguardo provocatorio e ammiccante.
L’attesa e i rumors per qualcosa simile ad una reunion sono stati decennali e hanno perciò fatto accrescere appeal a dismisura, e quando gli indizi sono tramutati in realtà, nonostante come preventivamente annunciato la storia vertesse su altre sponde e avventure distaccate, la curiosità sul “conoscere” finalmente il modus operandi di Jesus ha raggiunto picchi estremi. Il compito per l’attore, regista e sceneggiatore italo americano non è stato facile per nulla, visto che oltre a trasporre a suo piacimento le vicissitudini del proprio eroe nonché personale creatura e invenzione, cosa probabilmente elementare dato l’alone da canaglia dannata che si portava dietro, bisognava associarci pure una trama che rendesse il nuovo racconto non banale e dissimile al vecchio.
La prima missione è compiuta alla perfezione sin dagli albori che, ovvio, partono dall’uscita da un carcere, luogo perfetto e di sicuro passaggio per un simile tizio, e proseguono con l’epica mimica facciale di uno straordinario caratterista d’elite del calibro di Turturro, che si ripresenta davanti alla cinepresa con le peculiarità che hanno reso celebri quei tre minuti de Il Grande Lebowski: retina reggi chioma, unghia lunga e dipinta e inconfondibile gestualità provocante!
La seconda invece, affidandosi al remake anni 70 di Bertrand Blier I Santissimi, subisce una brusca e letale frenata, portando a fine riprese la sensazione di aver prestato le gesta di un mito infinito dentro un arco parlante troppo semplice, goffo e scontato.
John si esibisce in un’interpretazione straordinariamente calorosa e forse attesa da anni, un giocattolo da scartare e condividere con la platea, riuscendo a consegnare al suo Jesus gli stessi hype che Joel e Ethan regalarono al loro Drugo, Quintana iperattivo e ribelle e Jeffrey stralunato, pigro e dormiente. Il soggetto narrativo dei fratelli però è di uno spessore ineguagliabile rispetto a quello francese anni 70, dal quale perciò si sono distanziati, e per differenziare la personalità dei due miti trae il massimo da una trama che investe Lebowski e soci quasi indirettamente, per caso, portandoli all’interno di guai più grandi di loro in modo non voluto e quindi più attraente; qui invece Jesus, il suo amico Petey e Mary, ne combineranno una più del diavolo andando incontro a sventure e violazioni intenzionalmente, trasformando come detto una commedia grigia dal divertimento trash e fetish in una continua serie di gag comiche al limite del surreale!
Ciò è giustificato dal permettere così al protagonista di portare avanti fino alla fine le caratteristiche intraviste in passato, ma per mantenere nei suoi confronti un’ombra misteriosa e canagliesca costante si sacrifica quel minimo di serietà che un lungometraggio del genere dovrebbe conservare. I coprotagonisti, tutti prodighi ad assecondare un one man show di tale caratura, si perdono nel goffo e grottesco, marcando esageratamente la poca astuzia o la facilità a concedersi che i loro personaggi hanno in dote. Vale per Bobby Cannavale e Audrey Tautou, generosi commensali di un cast sopraffino, ma anche per l’immortale Susan Sarandon, che restituisce sì alla pellicola un serioso senso di libertà ritrovata prima e incapacità di perseguirla poi, ma che non riesce a svilupparlo, a causa di una sceneggiatura che punta più a scorrere che a ragionare, e li allontana appunto dalla storica aurea immortale dei Sobchak e Donny di ieri!
Jesus Quintana dunque è tornato e rimarrà indelebile nei nostri cuori al pari di Drugo. Le continue chicche sul passato e presente ne elevano la grandezza, dalle aperture sessuali e l’abilità nelle movenze ispaniche agli imbrogli continui, dalla mamma che fa la vita fino alle prime esperienze amorose nelle sinagoghe dello zio, per giungere alla tanto attesa scena cult con la palla da bowling a metà pellicola.
Il problema purtroppo e che vengono narrate in 80 minuti di leggerezza inaudita, lontani anni luce da quelli intriganti de Il Grande Lebowski, e che avvicinano il film più a un Thelma e Louise senza anima, tralasciando inoltre cuore e voglia di libertà, generando bensì l’esigenza di scappare e trasgredire quasi per gioco anzichè per ritrovare spiritualità. Esagerati poi i continui menage a trois passionali e quelli di amanti focosi a sorpresa usciti di prigione, che servono ad allungare il brodo di un lungometraggio che si affanna per arrivare alla fine.