La dolcezza di un bambino dentro il dramma più grande
Il nazismo in Germania visto dalla lucida purezza d’animo di un bambino, innamorato e poi disilluso dall’icona fuhrer, tanto da immaginarselo quotidianamente al proprio fianco, sotto forma di mentore e condottiero sul da farsi giornaliero.
E’ genialoide l’idea di Taika Waititi nel voler trasbordare sul maxi schermo questa lunatica fiaba drammatica, riprendendo il dolce romanzo di Christine Leunens e sceneggiandolo pure in proprio, forte dell’esperienza fantasy dei lavori passati.
Sarà Roman Griffin Davis il mattatore finale, piccolo, dotto, ma altresì grintoso in modo candido e poetico nel impersonare Jojo Rabbit, chiamato così per aver risparmiato un coniglio in una delle tante prove di coraggio ed orgoglio squadrista, aiutato nell’impresa dall’altrettanto pregevole Elsa di Thomasin McKenzie, coinquilina ebrea fuggiasca inaspettata, e dalle certezze conclamate Scarlett Johansson e Sam Rockwell, lei nell’ennesima conferma di una strepitosa stagione, anche qui mamma tenera e impavida, e lui iconico Capitano Klenzendorf, ulteriore ruolo che ne eleverà ancor di più l’alone da superstar stravagante e bizzarra!
Il regista, per non farsi mancare nulla, oltre a produrre in coabitazione il film, completa l’opera esibendosi nuovamente pure in recitazione, interpretando l’Adolf Hitler più psichedelico che ci sia, improvvisandolo in maniera goffa e grottesca, ma lasciandone intatta l’aurea infame e dittatoriale.
La pellicola riesce nel compito di non essere ripetitiva e a suo modo originale, evitando di affiancarsi ai molteplici esempi precedenti, toccando ogni tipo di argomento e dramma con uno stile sì onirico ma allo stesso tempo tragico e glaciale, permettendo a chi assiste di affezionarsi ai protagonisti innocenti e palpitando pathos e ansia allorquando la caccia alle streghe ha inizio, rimanendo da un lato attratto dagli ingenui racconti bambineschi tra giovani e dall’altro stremato dalle ignobili impiccagioni pubbliche della Gestapo, ferrea nel non risparmiare chiunque si disallinei!
Perfetto il montaggio che tiene in linea e tesse le fila di uno scorrevole e piacevole arco narrativo, dove dei costumi eccezionalmente variopinti ma realistici accompagnano le gesta del bimbo fra divise militari, estive, macchine d’epoca e location anni 40, il tutto riprodotto in modo affidabile.
Il lungometraggio, per restare singolare, si affida alla doppia combinazione tra dialoghi al limite del surreale e ironico, nei quali il piccolo Jojo ottiene le proprie certezze, e una durezza thriller e ansiolitica di base, con la quale il climax è sempre dietro l’angolo, pronto poi a trasformarsi più in una fuga avventuriera o d’amore verso il nuovo mondo rispetto a che scontrarsi a viso aperto con la tragedia filo nazista.
Lontano anni luce perciò risulta il paragone col capolavoro “benigniano”, nel quale e al contrario di qui, un neorealismo di fondo, fatto di paesaggi, uomini e paure veritiere appaiavano l’incessante e propositiva gioia di vivere al cospetto degli inferi, favorito inoltre da una sceneggiatura goliardica ma anche d’impatto.
In Jojo Rabbit invece, il modus operandi della cinepresa di Waititi, i testi volutamente elementari, la luminosità espressivamente ardente e l’eccentrica scenografia azzeccata, riportano in auge più uno stile alla Wes Anderson, al pari delle cavalcate finali che – laddove la paura è scemata e le sconvolgenti perdite affettive si iniziano a metabolizzare per ricominciare da capo – rimandano all’immaginario ed estetico lieto fine sognante del maestro texano.