C’era una volta nella San Fernando Valley
Paul Thomas Anderson si inserisce nella lista dei grandi registi che hanno omaggiato la propria adolescenza all’interno di un lungometraggio.
Se Cuaron e Branagh di recente si sono espressi tristemente e col cuore in mano, raccontando le difficili, povere ma infine felici vite messicane e nord irlandesi squartate da conflitti interni, l’istrionico cineasta losangeleno riporta invece in auge per lo stesso arco di tempo – i seventies – ciò che avveniva nella California hippy della valle di San Fernando!
L’approccio è perciò totalmente differente, dato che lo scopo di Anderson è quello di rivisitare in largo e in lungo un’intera carrellata di miti che gli si sono abbordati dinanzi, in maniera goliardica e col sorriso sulle labbra, partendo dalla idealizzazione dei propri sogni adolescenziali fino al raggiungimento di essi!
Licorice Pizza non è un capolavoro cinematografico e la storia a cui si riferisce è per di più un revival di situazioni grottesche fra giovani al limite del kitsch, marachelle e furberie tra chi è vicino alla crescita definitiva ma si rifiuta di toccarla con mano; tuttavia il clima col quale dirige la pellicola, la accompagna e la conclude lascia un bellissimo senso di appagamento per ciò che è stato e si rimembrerà all’infinito!
Non sorprende quindi che il ruolo della vita dentro un all star cast venga assegnato a due underdog come Alana Haim e Cooper Hoffman, lei 25enne testa sulle spalle (pure troppo) ma pronta eccome ad esplodere e lui goffo nell’aspetto ma mentalmente giovanissimo e spericolato ribelle a caccia di avventure.
La scelta è eccezionale e la coppia – appositamente nerd e poco trendy – al debutto buca lo schermo, facendo inoltre commuovere per la somiglianza del ragazzo col compianto padre Philip Seymour.
La direzione tecnica e artistica di Anderson arriva così a compiere il salto definitivo verso l’eccellenza, dopo un curriculum spaziale e poliedrico, nel quale ogni tipo di narrato è stato reso audace dalla sua camera da presa.
In Licorice Pizza la regia è difatti asciutta e prettamente matura, lontana dai velocissimi stacchi in primo piano che lo resero celebre negli esordi di Sidney, Boogie Nights o Magnolia, ma anche distante dalle graffianti giravolte di Ubriaco d’Amore e Inherent Vince, o dalla ferocia visiva de Il Petroliere e quella sottintesa de Il Filo Nascosto o The Master!
Qui si corre bensì al massimo, e una sceneggiatura soft ed esilarante si accoppia alla perfezione a riprese sia panoramiche che intimistiche, per merito delle quali esaltare un’epoca d’oro impossibile da dimenticare diviene un mantra, e la nostalgia a fine proiezione attanaglia tutti, non soltanto chi l’ha vissuta.
Anderson gioca di mestiere, non prendendosi troppo sul serio come il Ron Howard esageratamente austero e quasi tragico e sdolcinato nel raccontare la realizzazione del sogno americano, visto che qui, al contrario, lo si vuole tenere lì, fermo al palo, sfiorandolo e accarezzandolo ma tenendosi bene a distanza dal portarlo a termine.
Lo scrittore piuttosto strizza l’occhio alla magia dei racconti passati di Cameron Crowe e Richard Linklater, imitandone quella narrazione costantemente positiva e liberale, sfruttando inoltre una splendente fotografia accesa, anch’essa farina del proprio sacco!
Anderson termina il lavoro di Tarantino, finendo di narrare la parte più onirica di quella California agli albori dei ‘70, dove la popolarità da raggiungere a tutti i costi, violenza in primis, viene sostituita dalla genuinità di una vita sì bizzarra e spassosa, ma normale e convenzionale.
Radio, musica rock, psichedelia, Mustang e Pontiac, abbigliamento freak e capelli “liberi” scorteranno dunque Alana e Gary nelle loro avventure sotto il cielo azzurro e luccicante della San Fernando Valley, incontrando con furbizia e sfacciataggine personalità politiche, cinematografiche, teatrali e musicali, ma liberandosene poi con la sfrontatezza di chi non vuol crescere e rifiuta il successo, sinonimo di maturità e fine dei sogni!