Vite inquinate
Duro e crudo questo spaccato di ingiustizia comune a firma Todd Haynes, rientrato così in pompa magna dall’intrigante ma infine deludente La Stanza Delle Meraviglie.
Il cineasta goliardico si affida a un articolo uscito pochi anni fa sul New York Times Magazine e riguardante la lunghissima e mastodontica causa legale portata avanti dall’avvocato Robert Bilott contro il colosso dell’industria chimica DuPont, in relazione ad un probabile inquinamento che provocò nella Virginia Occidentale numerosi problemi alla salute pubblica!
La pellicola azzecca in pieno le prerogative dell’origine, parlando all’utente in modo schietto e diretto, sacrificando gli hype che una trama del genere arrecherebbe, quali i rapporti umani fra gli interpreti, per indirizzarsi sin da subito in modo secco e specifico verso la clamorosa prepotenza che fa delle lobby il male primordiale di fine secolo scorso e inizio del contemporaneo.
Cattive Acque ovvio, per contemporaneità, non può che rimandare alla Promised Land di Van Sant e soprattutto al Michael Clayton di Gilroy, visto che pure qui il nuvolo di consulenti di un celebre studio legale deve decidere se coprire titani spesso clienti o iniziare una battaglia che degenera quasi nelle stanze politiche e va a contorcere interessi planetari!
Se però nel primo lavoro un po’ troppo hollywoodiano il genio olandese/americano crea un doppiogiochismo tra buoni e cattivi, che distoglie l’attenzione sui soprusi di chi vuole trivellare terreni alla faccia del rischio ambientale, mentre nel secondo splendido è il cinismo che fuoriesce fra i numerosi duellanti, qui la regia è lucida nel resocontare alla perfezione esclusivamente il lato marcio dell’arco narrativo, divagando solamente verso la parte più problematica e tragica che le esistenze di chi denuncia, accusa e alla fine combatte il “gigante” si ritrova ad affrontare, quale l’inizio di una crisi coniugale, l’allontanamento sociale, civile e lavorativo, l’accantonamento giuridico, la malattia, i danni permanenti finanche giungere a una morte lenta e diabolica!
Difatti, al buonismo di un lieto fine costantemente presente in vicende talmente sudicie viene concessa la miseria di pochi minuti nei titoli di coda, allorquando il piccolo eroe Bilott riesce nel suo intento dopo tempo interminabile e grazie all’escamotage di convocare singolarmente ogni cittadino coinvolto.
Mark Ruffalo si attesta elite con una performance straordinariamente colma di toccante normalità, partendo in sordina e conseguendo l’aurea di mito ordinario, la cui cocciutaggine si accosta al terrore di veder sfaldato ciò di cui più caro, come la quiete familiare e un impiego stimato e remunerativo. La sua invecchiata fisicità riporta in auge i migliori del passato, icone quotidiane alla Dustin Hoffman o Edward G. Robinson, distanti perciò dal modello corporeo “superdotato” a cui il mainstream tende ad abituare recentemente.
Azzeccata l’adattata sceneggiatura di Mario Correa e Matt Carnahan, per merito della quale le due ore e passa sostanzialmente parlate non hanno punti morti, cedendo a un cast all star la possibilità di unire l’acting personalizzato a ruoli profondi, ognuno dei quali decisivo per portare a termine il protuberante interesse del racconto-denuncia!
Ad accompagnare il protagonista in questo viaggio infernale infatti sia Anne Hathaway, al solito intensa e intimistica nel salvaguardare la nobiltà d’animo del consorte, che Tim Robbins, severo datore di lavoro celere però ad appoggiare il pupillo, lasciano il proprio indelebile segno nella difficile e traumatica cronaca di una sconfitta pubblica e collettiva.
Bella e drammatica anche la prestazione di Bill Camp, che cede il giusto omaggio a Wilbur Tennant, “responsabile” dell’inizio e la fine di tutto, ergendo l’ostinata caparbietà di un contadino usurpato di terra e salute; guascona ma cinicamente pungente invece quella di Bill Pullman, utile ad alleggerire la tensione emotiva che rimane nell’etere continuamente.
Le inquadrature concedono a tutto il lavoro un senso di tristezza inconscia, fiancheggiando ai molteplici rallenty e dettagli di una camera iper soggettiva, che abbracciano percezioni visive fatte di ansia, terrore e sconforto di chi insegue un ostacolo insormontabile, e malizia e sarcasmo caustico di chi li osserva dall’altro lato, un incantevole campo lunghissimo, essenziale specialmente nelle fasi conclusive per esaltare l’oscurantismo della sera sulle città che si ritirano a riposare e sulla comunità che chiude sconfitta le luci di casa.
La panoramica verso fiumi e laghi, unici “esseri” creati per resistere all’infinito, si appaia invece a quella delle industrie, sicari silenziosi sempre accesi e luminosi, e simboleggia la tenace sopravvivenza di chi avvelena la natura in nome del Dio denaro!