L’arte di persuadere a tutti i costi
Vendere fumo o certezze, arrampicarsi sugli specchi mediatici e creare un impero fra proseliti e sudditanza evangelica: Gli Occhi di Tammy Faye narra la storia della famosa telepredicatrice che a cavallo degli anni settanta e ottanta divenne un guru fra i network cristiani statunitensi.
Il biopic a firma Michael Showalter, direttore del pregevole The Big Sick, in bilico fra piccolo schermo e cinema e qui regista e sceneggiatore, si attiene sugli standard del genere, cedendo alla verve della maestosa Jessica Chastain il compito di riproporre fedelmente gli avvenimenti soprattutto psicologici della donna e di suo marito Jim Bakker, un altrettanto convincente Andrew Garfield.
Difatti, quel che accompagna la proiezione dall’inizio alla fine non è un’avventura cinematografica che risalti l’ascesa della coppia verso l’olimpo massmediale prima di rovinare vertiginosamente, partendo dal nulla fino a trovare la nicchia vincente, per l’appunto smuovere le coscienze moderate, conservatrici e maschiliste di una parte d’America bigotta, scuotendo gli animi sui diritti civili, l’amore per la fede e l’instancabile preghiera verso l’Altissimo a suon di canzoni religiose, ricavandone quindi in dote numerose donazioni e soldi a palate!
Tutto ciò viene appena sottinteso da una regia educata e didascalica, che come detto preferisce mettersi da parte di fronte alla recitazione dei due campioni, con la Chastain per questo finalmente premiata nel trofeo maggiore di Hollywood e immedesimata perfettamente nella voglia di successo a tutti i costi della sua Tammy, girovagando costantemente attraverso molteplici tumulti interiori, passando rapidamente da gioia, convinzione, fiducia e rispetto a delusione, dipendenza, disperazione, scetticismo e sconforto.
Questo purtroppo, se da un lato eleva l’acting dell’attrice in un ruolo fatto apposta per esplodere le proprie eccellenti poliedricità e un camaleontismo innaturale, che d’altronde l’hanno portata non a caso a sostenere gli oneri di una produzione a lei congeniale, dall’altro appiattisce eccome una narrazione troppo timorosa, che si tiene ben distante dal dire la sua su un argomento spinoso come la fede a pagamento e annesso tornaconto politico, e che mantiene simmetricamente nascosta la voglia di emancipazione della donna in carriera, qui empatica quanto si vuole ma infine monocorde e priva di sfaccettature!
Se invece questo lungometraggio ha interesse narrativo lo si deve esclusivamente agli hype costanti che il personaggio di Andrew Garfield immette, risultando a fine opera lui il mattatore forse meritevole di Oscar.
La sua postura ambigua seppur goliardica infatti non lascerà trapelare alcun tipo di verità emotive, sin dalle iniziali prediche che affascineranno la futura consorte, alle relazioni sentimentali bipartisan fino a presunte scorrettezze e manipolazioni spirituali e finanziarie.
Un biopic dunque eccessivamente classicheggiante e monodimensionale per attrarre e convincere appieno, nonostante costumi, trucco e scenografia mantengano – loro sì – un livello qualitativo paritario a quello degli attori, fra i quali menzione d’onore merita pure Vincent D’Onofrio, terzo violino d’eccezione.