Gli ultimi mesi di Craxi nella sua villa di Hammamet.
Gianni Amelio sceglie di raccontare così una delle figure più controverse della recente storia italiana.
Degli anni d’oro non v’è che il prologo: il 45° congresso del PSI, la sua rielezione a segretario con un plebiscitario 92%. Lui, il Presidente (Pierfrancesco Favino), superbo e arrogante, accoglie con noncuranza le prime avvisaglie del terremoto giudiziario, annunciato da un profetico ammainamento di bandiera.
Tempo dopo, a fine anni ’90, il Presidente non è più lui. E, soprattutto, non si trova più in Italia.
In fuga o esiliato, contumace o reietto: su questo Amelio non prende posizione. Non gli importa né rivolgergli un atto d’accusa, né proporne un’agiografia.
Il regista calabrese si focalizza sull’uomo solo al crepuscolo, gli dà voce pur non chiamandolo mai per nome; allo stesso modo in cui non chiama mai gli altri personaggi col loro vero nome: è il suo modo di non immischiarsi troppo, di non osare.
Lui, perciò, resta soltanto il Presidente; sofferente, amareggiato, convinto d’essere il capro espiatorio di un intero sistema corrotto.
E’ una voce dolente ma forte, la sua, che grida allo scandalo dell’ipocrisia: “Lo facevano tutti!”.
Non nega le sue responsabilità, non cerca assoluzioni; più semplicemente, non gli va d’essere indicato come il solo responsabile.
E’ l’unico sbilanciamento che Amelio si concede, per il quale sente di poter prendere posizione.
Per il resto, rimane l’uomo: Craxi padre, marito, nonno, amante. Ma anche colui che ragiona ancora da statista, già consapevole della fine e, proprio per questo, teso nello sforzo estremo di consegnare ai posteri un’immagine di sé diversa rispetto alla narrazione comune (“Quando io non ci sarò più, chi mi difenderà?”).
Lo farà affidando la sua verità alla telecamera amatoriale del giovane Fausto (Luca Filippi), figlio di Vincenzo (Giuseppe Cederna), compagno di partito morto suicida per la vergogna.
Fausto, turbato e discorde coagulo di coscienza, senso di colpa e necessità di giustizia.
Fausto, anima ferita e pistola nella borsa, che, al contempo, rappresenta il suo passato e il futuro che non vedrà: il tramite con la Storia con cui dovrà confrontarsi per sempre.
Film incerto, questo “Hammamet”. Frenato dal timore di dire troppo o troppo poco, resta piatto, lento, poco sostenuto dalla sceneggiatura e – tranne qualche eccezione di cui si dirà – fiaccato dalle figure di contorno appena abbozzate o mal costruite. Tra queste, è soprattutto il personaggio di Fausto a deludere: pensato come elemento centrale, autentico perno narrativo, finisce, anche a causa della debole interpretazione, per essere percepito come corpo estraneo, vera e propria forzatura.
Un discorso a parte merita, invece, il personaggio della figlia (Livia Rossi). Chiamata fittiziamente Anita in omaggio alla craxiana passione per Garibaldi, Amelio la ritrae come figura amorevole e devota, confessando d’essersi ispirato per la sua costruzione a Cassandra, Elettra e Cordelia, protagoniste femminili di tragedie greche e shakespeariane. Ma di tutte costoro, questa pseudo-eroina nemmeno sfiora la complessità, restando anch’essa, nonostante le buone intenzioni, relegata ad un ruolo ancillare e sommesso.
Insomma, degli interpreti secondari, l’unico a meritare un encomio è l’ottimo Renato Carpentieri, attore di classe inossidabile, il quale, nei panni di un misterioso politico di un partito avversario, dà luogo col Presidente ad un intenso duetto che costituisce una delle sequenze più interessanti del film. Non si tratta però dell’unica. Non si può tacere, infatti, del piacevole e sorprendente – anche se un po’ sopra le righe – sottofinale onirico-felliniano (e vagamente lynchiano); allo stesso modo in cui non può non parlarsi della scena in cui il Presidente, ormai prossimo alla morte, racconta alla figlia di un sogno fatto la notte precedente. E’ questa, a nostro avviso, la parte migliore, quella in cui la tragedia umana dell’uomo Craxi trova il suo momento di maggior espressività.
Ecco, a questo punto molti si chiederanno: “Ma Favino?”.
Ebbene, Favino, da buon dulcis in fundo, l’abbiamo lasciato alla fine perché la sua performance è senz’altro la cosa più bella del film; non soltanto per il trucco perfetto che lo rende praticamente identico al vero Craxi, ma per la postura, la gestualità, l’inflessione. Una prova d’attore, la sua, a dir poco eccezionale, sempre contenuta, mai sopra le righe (rischio alto, considerato il personaggio di cui si parla), in grado di cambiare registro di continuo e di mostrare plasticamente le tante sfaccettature del discusso uomo politico.
Sorge, però, il dubbio paradossale che possa essere stata proprio questa stessa bravura a cannibalizzare il resto del racconto o, quantomeno, a svelarne per contrappunto i limiti e le pecche. E’ come se lo stesso Amelio, così ammaliato dall’interpretazione dell’attore romano, abbia perso di vista il quadro d’insieme, dimenticandosi di un contorno che, se meglio curato, avrebbe reso l’intero lungometraggio più solido e meno insipido. Ed è un peccato. Perché proprio per questa ragione “Hammamet” rappresenta complessivamente un film debole e noioso, che di certo resterà negli annali del cinema italiano, ma solo per la prestazione del gigante Favino. Il resto, invece, sarà destinato a passare molto velocemente.