Arrivismo all’italiana
Ancora Ridley Scott a far parlare di sé, stavolta con un film che viaggia spedito verso gli Oscar ma meno di nicchia degli ultimi predecessori, nel quale si strizza l’occhio al mainstream e viene portato a casa il compitino grazie a molteplici espedienti d’autore.
Su tutto un cast stellare che ruba la scena dal primo all’ultimo ciak e che si esalta negli action di pertinenza, sfidandosi a suon di improvvisazione e sfruttando la verve dei personaggi affidati, nessuno banale.
La trama inoltre affascina e non poco, e perciò scorre via tramite una narrazione lineare che fila liscia seguendo sostanzialmente tre step: la veloce introduzione di ogni interprete, un “middle eight” esplicativo e la parte finale trasformata in un giallo all’italiana.
Vicini all’eccellenza poi dei meravigliosi e sfarzosi costumi, che ripropongono perfettamente il fanatismo, la ricchezza ed infine il decadimento dell’Italia nobile anni 70, al pari di un trucco che maschera prodigiosamente l’ispirazione di Lady Gaga, Al Pacino e Jared Leto, all’ennesima e azzeccata trasformazione di carriera!
House of Gucci è l’adattamento cinematografico dell’omonimo libro di Sara Gay Forden, sul quale il regista/produttore decano aveva già messo gli occhi addosso decenni or sono, forse perché gasato dal dover dirigere un thriller grottesco con inflessioni (pacchiane) italiane.
Il film è appunto un lungo resoconto sulle gesta di Patrizia Reggiani, ultima arrivata in seno alla gloriosa famiglia di moda, partendo dalla sua “iniziazione” a seguito dell’incontro col futuro marito Maurizio, proseguendo col proprio insediamento nelle cabine di comando, grazie alla seducente amicizia con zio Aldo e la dipartita del patriarca Rodolfo, per giungere infine a organizzare (?) l’omicidio del coniuge, una volta che costui iniziò a voltarle le spalle.
Scott evita purtroppo di entrare diretto nella psiche dei suoi eroi, adagiandosi come detto su un arco narrativo accattivante e tralasciando l’introspezione. Così purtroppo nessuno si spiega i motivi reconditi che spingono ogni personaggio a comportarsi in modo bizzarro e quasi innaturale.
Lady Gaga/Patrizia viene infatti presentata dal nulla, ma si evince fin dalle prime battute a cosa ispiri e quale indole arrivista si celi dietro il suo sorriso; tuttavia il soggetto dell’opera, spento e striminzito, la fa passare pressapoco per una piccola borghese disagiata impegnata al centralino della ditta di autotrasporti familiare, anziché dedicarle qualche primordiale assolo che ne giustifichi le terribili “avventure” psichiche di lì a venire.
Stessa cosa per Adam Driver, anonimo bamboccio di una casata miliardaria ma d’un tratto e a momenti cinico e risoluto.
Peccato, perché così facendo la vena dei due protagonisti principali nonché straordinari e ispirati attori subisce brusche frenate, che non consentono a chi assiste di elargire loro sufficiente empatia, costringendo l’utente ad affezionarsi ai prodigi secondari, attendendone con ansia l’entrata in scena.
Ridley Scott pecca per una volta di regia stereotipata, non particolareggiando quindi i personaggi ma anzi esponendoli ad azioni macchiettistiche, che scivolano spesso nel kitsch; la mossa è però senza dubbio calcolata, dato che la progressione continua di ansia e pathos si abbina alla comicità di stravaganti scenette maccheroniche dell’intero cast.
Il direttore si affida così a un narrato che d’incanto attrae, sfruttando inoltre un dramma che coinvolse e incuriosì l’intero paese nostrano a metà anni 90.
Bello il parallelismo fra l’ascesa di Patrizia in seno alla famiglia e la decadenza della famiglia stessa, con numerose faide celate fra tutti i membri, l’oramai avido Maurizio, l’eccentrico Aldo e l’underdog Paolo in primis.
Scott non annoia dirigendo un’opera lineare più prossima ai blockbuster che all’indie, esaltando le arrampicate sociali a tutti i costi e gli albori – seppur goffi – delle “femme fatale”, tenendosi però alla larga dal rischiare qualunque tipo di introspezione che ne giustifichi l’avvento.
La pellicola perciò convince, ma a fine riprese resta purtroppo un senso di incompiuto che pesa in negativo nel giudizio terminale.