Un salmo nel crepuscolo
I Salmi di Lamento Individuale e relativo romanzo “Il Potere del Cane” vengono presi in affitto da Jane Campion per riproporre sul grande schermo un western crepuscolare che colpisce e convince.
Un genere fatto e finito sostanzialmente da più di 50 anni col canto del cigno di Sam Peckinpah, Howard Hawks e Sergio Leone, riesce invece ad ottenere risultati assolutamente originali, e trasmettere inoltre una simbolica sebbene simbiotica morale umanitaria, nonostante trame feroci e truculente.
La regista consegue per di più un’inaspettata rivalsa personale dopo anni di oblio e assenza, relativi al fallimentare e insignificante In The Cut, col quale in pratica uscì di scena dai lungometraggi, prima di riprendere crediti “televisivi” con la bellissima direzione artistica di Top Of The Lake!
In questa drammatica e mastodontica odissea familiare invece, la sua camera da presa non spreca un colpo, alternando delle lunghissime e dinamiche introspezioni umane, pedinando i quattro protagonisti fin dentro l’anima, con importanti e significative aperture in campo lungo, per diversificare ma pure pareggiare il bellissimo distanziamento/accostamento fra la natura libera e selvaggia del Montana anni ‘20 e la guerra interiore della famiglia Burbank!
Difatti, l’antitesi fra i fratelli Phil e George, si acuisce allorquando il secondo, nobile d’animo, socievole e accondiscentente, conquista il cuore di una vedova padrona della locanda del luogo, accasandosela assieme al di lei figlio nella sfarzosa dimora familiare, frutto con la vasta distesa di proprietà della famigerata “età dorata”.
George, l’ingiustamente spesso sottostimato ma mai banale Jesse Plemons, può perciò coi suoi modi pacati e impacciati districarsi dalla prorpia nemesi, deviando quindi il suo modus operandi dai canoni standard e maschilisti dell’epoca, per relazionarsi appunto con la nuova vita da marito e persona borghese in combutta coi dirigenti locali.
Questa “rivoluzione” personale sembra la giusta metafora sulla fine del genere western, col ranchero rozzo e meschino che tenta di allacciare rapporti tradizionali col sesso debole e la crescente comunità in abito elegante, a costo di rinnegare l’eredità di famiglia, spronando il proprio io a diventare uomo comune, mantenendo dunque le direttive del tanto evocato Bronco Henry solo per ritirare i profitti a fine giornata.
A difendere altresì la genesi e l’orgoglio patriarcale spicca la figura di Phil/Benedict Cumberbatch, splendente nella parte da cattivo irreprensibile, mai così spietato e disumano, un non plus ultra di misoginia e omofobia, che osserva pertanto il distacco spirituale del fratello come un tradimento verso gli albori originari fatti di fatica ed etica della natura, la spaziosa e generazionale esistenza da cowboy!
Se la regia appare quindi attenta ad assecondare le movenze dei due, il salto di qualità alla pellicola lo fanno fare dei bellissimi dialoghi riadattati, grazie ai quali la Campion permette all’ispirato duo di difendersi ed attaccare allo stesso tempo, con la dimessa ma ottimamente stimolata Kirsten Dunst e il sorprendente Kodi Smith-McPhee a fare da oggetti della discordia, punto focale dal quale discostarsi per tornare alle vecchie abitudini o sul quale sovrapporsi e appoggiarsi per abiurare una vita oramai stretta e asfissiante.
La sceneggiatura della cineasta è la vera forza di questa opera, accompagnata da oniriche e coinvolgenti musiche di Jonny Greenwood: dura, violenta e a volte al limite dell’incontrollabile e impotente, ma infine speranzosa nella propria sofferenza e voglia di libertà, nonché sorprendente ed inattesa nei passaggi di svolta.
Di western pertanto rimane ben poco, se non l’espediente per aprire il proprio corpo e polmoni ad aria aperta in sconfinate vastità fra animali e natura.
I temi trattati in modo silente ma deciso infatti, su tutti gli scontri generazionali da sempre esistiti e mai sopiti fra animi conservatori e progressisti e il ruolo sommesso della donna, laconica ma interiormente decisiva per far breccia sull’imminente nuova era, consentono a questo film di sbarcare il lunario e divenire un punto di svolta e raccordo fra due periodi di riferimento, quello della maschilista tradizione sociale e quello dello sviluppo, progresso e crescita, dal quale continuiamo tutt’oggi a trarre giovamento.
Tra In the cut (splendido) e la serie c’è Bright Star
Si infatti c’è scritto “in pratica uscì di scena”, per questo non è stato menzionato Bright Star. Che In The Cut sia splendido è un’opinione personale da rispettare, ma penso l’unica in tal senso…