Il Bernstein di Bradley Cooper convince a metà
Alla prova del nove come sceneggiatore, regista e – ovviamente – protagonista Bradley Cooper non manca di ricevere consensi ed ottenere nomination su nomination.
Anche stavolta è la musica a farla da padrone, ma anziché replicare un musical storico si cimenta in un biopic sul grande Leonard Bernstein, compositore e direttore d’orchestra secondo a nessuno.
Già questo dovrebbe bastare sia per far capire l’enorme mole di lavoro, passione e abnegazione che il poliedrico attore ha messo in scena per convincere le masse, ma pure per immaginare come due ore di pellicola potrebbero presentare molte pecche dal punto di vista descrittivo.
Difatti, su scegliere se rappresentare l’elegante intimismo del Maestro e il rapporto esclusivo ma mutevole con la compagna oppure raccontarne le gesta artistiche e le enormi introspezioni mentali che le esaltavano il regista non ha avuto dubbi, optando per la prima opzione.
Questo è magari anche scontato, dato che la tecnica da riproporre in un lungometraggio avrebbe fatto storcere il naso ai sopraffini cultori della prima ora, al pari di una complessità caratteriale qui solo sfiorata, ma è pur vero che Cooper così facendo personalizza al massimo una storia intrigante per ottenere riconoscimenti personali.
Riconoscimenti meritati sia chiaro, visto il grande sacrificio psichico/fisico che lo ha trasformato in mente e corpo e che più di una volta non ha mancato di accentuare nelle lunghe passerelle hollywoodiane.
Inoltre, una regia dinamica che spazia fra bianco e nero e colore dimostra la maturità raggiunta come giovane regista, oltre a restituire emozioni ad ognuna delle epoche del protagonista, quella sconclusionata e ricca di caos degli esordi e la maturità finale.
La scrittura di quest’opera punta invece per lo più ad “intimizzare” quel che Leonard fa nel giornaliero, distanziandosi purtroppo dallo spiegare e analizzare il perché le molteplici polarità di un temperamento così ricco di sfaccettature gli abbiano permesso di sbarcare il lunario. Grave pecca questa, che come detto consente si all’ormai iconico attore di aggiungere l’ennesima tacca di prestigio in una carriera da mattatore e improvvisatore, ma lascia il film privo di qualunque celebrazione artistica del mito Bernstein.
Il Bernstein descritto da Cooper resta comunque nei cuori di chi segue, per via della spasmodica cura dei dettagli e l’eleganza con la quale l’attore e regista viene a patti, coinvolgendo la sempre ottima Carey Mulligan in un rapporto amoroso lungo e infinito, ma che appositamente tralascia nell’aria un alone di insicurezza, dovuto alle pulsioni e attrazioni omosessuali del marito e la sua invadente personalità, liberale se non quasi astiosa come uomo e pregna d’amore come artista.
Il bellissimo prologo illude, quando il giovane Bernstein stupisce le folle – quella della NY Philarmonic Orchestra e di chi al cinema – in sostituzione di Bruno Walter, insediando la prima pietra di una carriera brillante che lo farà icona. Finisce però tutto in fretta, e gli enormi successi che in futuro lo renderanno celebre rimarranno appena accennati, al contrario della relazione con Felicia, la cui apparizione è subito successiva all’esordio musicale, e che resterà (questa si) costante per l’intero arco narrativo.
Grazie a ciò, Cooper e Mulligan possono liberare tutto il loro talento e la propria avvenente potenza comunicativa per bucare lo schermo, in un vortice di frastuoni emotivi che caratterizzano la vita del Maestro.
Il trucco a cui l’attore viene sottoposto poi, è semplicemente perfetto per rendere la sua interpretazione inarrivabile, che però e come detto serve ad elevare soltanto la sua di grandezza anziché quella del protagonista!