“Se apro il mio corpo affinchè voi possiate guardarci il mio sangue, è per amor vostro: l’altro” (Gina Pane).
1977, Susie è una giovane ragazza dell’Ohio che arriva nella famosa Markos Tanz Company di Berlino per un’audizione di danza.
Nel 1977 uscirono “Low” ed “Heroes” i primi due atti discografici della trilogia berlinese di David Bowie; performing artist, pittrici, scultrici e fotografe femministe come Gina Pane e Ana Mendieta erano in piena attività; la Germania era sotto l’assedio della RAF; Berlino era scissa dal muro; il grande regista tedesco Rainer Werner Fassbinder continuava a trasporre nei suoi film gli umori della Germania di quegli anni e soprattutto gli stati d’animo del femminino, il Nazismo era morto da 30 anni ma il senso di colpa di una nazione e dei sopravvissuti non si era ancora sopito.
Lo sceneggiatore americano David Kajganich partendo dal 1977 e da tutto quello che culturalnente, politicamente e artisticamente accadeva a Berlino ha scritto un maestoso melodramma storico di deflagrante forza concettuale dove le citazioni, consce ed inconsce, si inanellano costantemente.
Luca Guadagnino si è appropriato dello script e da raffinato esteta ha dato vita ad una lunghissima sequela di omaggi alla danza contemporanea e a molta arte pittorica, fotografica, cinematografica e musicale del novecento.
Si va dalle scenografie che ricordano le architetture di Albert Speer alle coreografie di danza che rimandano a quelle della grande ballerina Mary Wigman, si passa dalla raffigurazione di una Berlino grigiastra e divisa dal muro simile a quella di “Possession” di Andrzej Zulawski ad immagini che ricreano le foto di Francesca Woodman, si citano palesemente Bowie e la pittura di Balthus, così come il filosofo Lacan e la psicologia del transfert di Jung; citazioni colte, perfettamente funzionali al racconto.
L’estetismo esasperato di Luca Guadagnino domina ogni fotogramma del film e la sua personalissima visione della vicenda lo trasforma in un’originale opera sui corpi, quelli femminili, che si fanno involucri di anime che si rifiutano di rimanere schiacciate dal potere intransigente del patriarcato e del matriarcato.
In “Suspiria” ci sono corpi che ballano in preda a sabba liberatori, danze fiammeggianti che si fanno atti rivoluzionari, coreografie dal potere mistico che diventano la presa di coscienza di un femminino che non vuole più subire ma agire.
Le donne di Guadagnino creano un microcosmo lontano dagli orrori della storia contemporanea dominata dal maschio e tentano con ogni mezzo a loro disposizione di realizzare una gerarchia politica democratica e vaginale ma pur rifuggendolo sono inevitabilmente lo specchio del periodo storico in cui vivono.
Esse si fanno assenza e presenza, metamorfosi e nuovo atto politico, usano la danza per recuperare la loro identità o trovarne una nuova.
Il regista palermitano non ha paura di affrontare il sublime, di perdere la misura e ritrovarla, di sondare tutte le soglie che mettono in comunicazione il visibile dall’invisibile, di lavorare sulle psicologie dei personaggi e sulle loro ambiguità e di aprire squarci di romanticismo e di desiderio erotico all’interno di un racconto dai connotati orrorifici.
“Suspiria” stilla sangue e sgomento, dolore e lacrime, vita e morte, amore ed odio, è un’opera arty di rara bellezza visiva dove il suo prepotente contenuto storico riflette la schizofrenia, la contraddittorietà e l’isteria della Berlino degli anni settanta.
Con “Suspiria” Luca Guadagnino ha realizzato il suo delirio autoriale, quello che per Rob Zombie è stato “Le streghe di Salem” e per Darren Aronofsky “Madre!”.
Un film ambizioso, smisurato e tecnicamente ottimo.
Il montaggio di Waletr Fasano è furioso, sincopato, alternato, musicale, ricco di dissolvenze incrociate, di tagli netti così come di long take.
Le musiche di Thom Yorke sono insinuanti, struggenti e si innestano sotto pelle.
La fotografia del thailandese Sayombhu Mukdeeprom è oscura e plumbea, in grado di trasmettere un costante senso di minaccia, i personaggi si muovono nell’oscurità e sembrano venir risucchiati dallo spazio scenico.
Il lavoro sul sound design è quanto di più vicino al sublime possa esserci, con il suono costante della pioggia battente, le voci, i rumori e gli inquietanti sospiri di sottofondo.
I movimenti di macchina sono nervosi, largo l’utilizzo dell’inusuale zoom e grandioso il lavoro sulla profondità di campo.
A fior di pelle la recitazione degli attori.
Tilda Swinton è magnetica, Dakota Johnson è ambigua e totalmente convincente, Mia Goth è una Shelly Duvall moderna, Sylvie Testud è struggente, Chloë Grace Moretz meravigliosamente fuori controllo, Jessica Harper una vera visione e le mature signore icone del cinema tedesco (Winkler, Caven, Soutendijk) sono puro rock’n’roll.
“Suspiria” è un saggio sul potere manipolatorio dell’arte e dell’amore, un grande film sui fantasmi del passato, un lungometraggio che alterna il gore più esplicito alle riflessioni sociologiche.