The Brutalist (2025)

Un’opera mastodontica sul post Olocausto

La tragedia ebraica della Seconda Guerra Mondiale rivisitata in modo alternativo, ponendo l’arte e la cultura al centro della salvezza e resurrezione di un uomo.

Questo in due parole tratta The Brutalist, film low fi ma dalle attrazioni mainstream, in primis per l’argomento che tratta, oramai un must losangelino, ed inoltre per la magistrale interpretazione di Adrien Brody, figlio di Hollywood prestato però molto spesso a lungometraggi in cui la nicchia l’ha fatta da padrone.

Un’opera decennale che parte accennando il dramma umano in quell’epoca fratricida, con piani sequenza misti a flash back ravvicinati in cui confusione, disperazione, adrenalina, claustrofobia e ovviamente paura mettono brividi.

Una bellissima voce fuori campo narra poi la speranza di salvezza di una famiglia divisa ma ancora in piedi nonostante le umiliazioni dei campi di concentramento.

Infine, e d’improvviso, come usciti fuori da una botola infinita, appare sì l’immagine impetuosa della Statua della Libertà, ma scoordinata e disordinata: uno splendido ed iconico paradigma sulla possibilità di rinascere spiritualmente ma a condizioni difficili e drammatiche.

Regia e penna di tale e splendente innovazione cinematografica è quella di Brady Corbet, ragazzo prodigio già fattosi le ossa per l’appunto nel cinema indipendente di inizio secolo, che regala dunque alla platea la rivisitazione del più grande dramma di sempre in maniera anticonformista, una sorta di tragedia dell’Olocausto sui generis, nella quale esalta sì la Terra dei Sogni come tutela meritocratica verso gli ultimi, ma ne accenna in seguito pure una speculazione latente su chi risale la china!

La vita di Laszlo Toth, talentuoso architetto ungherese, emigrato negli Stati Uniti dopo la detenzione nei campi di concentramento, viene raccontata in tre decenni, dagli inizi turbolenti americani, con moglie e nipote ancora distanti, alla ristrutturazione di una libreria per un milionario, fino a un mastodontico progetto culturale.

Vessazioni, diffidenza verso lo straniero e tentativi di modifica al proprio progetto metteranno Laszlo/Brody di fronte a numerose scelte difficili, persino economiche, tutte però improntate a difendere strenuamente oltre che gli originari propositi artistici anche una resilienza spirituale già parecchio sfiancata!

Un film di interesse storico e culturale, perché eleva, in contrapposizione alla ferocia di guerre e oppressioni, sia il lato umano e abbastanza inedito di un Ungheria devastata durante e dopo il Conflitto, che quello di un’arte utilizzata oltre che come erudizione propria anche per sopravvivere e resuscitare.

I personaggi che nella lunghissima ma mai banale e noiosa narrazione accompagneranno Laszlo nel suo viaggio verso la fama, sono inoltre pregni di fascino ed interesse, grazie ad interpretazioni monstre che sono valse a quasi tutto il cast nomination su nomination.

Un film basilare sulle (dis) illusioni che gli Stati Uniti tramandano da secoli verso i loro “ospiti”, accettati, lusingati ed innalzati se contribuiscono ad una mai ben chiara ripresa nazionale, ma emarginati se non addirittura “murati” in caso contrario.

Ciò che Laszlo e milioni di “stranieri” di ogni epoca trasbordati nella Terra della Libertà capiranno invece, sulla loro pelle e con atteggiamenti ondivaghi, sarà però che la tanto decantata accoglienza, indipendenza e speranza che da sempre echeggia ipocritamente al suo interno, viene bensì avvicendata da più concreti disinganni, diffidenze e beceri convenzionalismi.

L’iconografica e istantanea raffigurazione della Statua della Libertà ruotata di 90 gradi e il rapporto invece duraturo fra Laszlo e il proprio mecenate, inizialmente prodigo di concessioni ma poi individualista, sono due pregevoli chicche cinematografiche sui legami vincolati che intercorsero in quell’epoca fra Stati Uniti e l’Europa angustiata dalla Guerra.

Il tragitto post olocausto che il reduce ungherese compie nel suolo a stelle e strisce viene flagellato da arte, creatività e una inedita ambizione quasi smodata, a cui però si farà fronte un ostile brama di potere che non potrà far altro che riportare in auge la sofferenza d’animo, dimessa ma mai svanita.

Corbet “brutalizza” così la propria di arte, totale e totalitaria, nella quale cultura e capitale sono incompatibili, lasciando ai posteri un’opera colossale che rimanda ai rimpianti di quanti rinunciarono a sé stessi, alle proprie famiglie e origini e alle amicizie veritiere, per piantare un’impronta indelebile e duratura nella terra americana, riscuotendo invece in cambio la malevolenza capitalistica degli yankees.

Scrivi un commento

Powered by WordPress | Web Concept by: Webplease