Il buio all’improvviso
L’inizio, la convivenza e l’accettazione con la demenza senile, in ordine tutto fuorchè cronologico, vengono rappresentati cinematograficamente da Florian Zeller, enfant prodige della drammaturgia francese, spesso nei meandri di Molière e Tony Award.
Il poco più che quarantenne parigino viene convinto a trasportare sul grande schermo proprio una sua piece teatrale, The Father (Le Père), avvalendosi di formidabili campioni alla recitazione come Anthony Hopkins e Olivia Colman, al montaggio (George Lamprinos), nella scenografia (Peter Francis e Cathy Featherstone) e alle musiche col nostro Ludovico Einaudi! Inoltre, per traghettarsi in un esordio così impegnativo, si fa affiancare alla sceneggiatura dall’inglese Christopher Hampton (Espiazione, Le Relazioni Pericolose), altro giovane polivalente della nouvelle vague europea.
Anthony, nomen omen, viene catapultato nel buio e nello squilibrio più intrinseco, incapace da un momento all’altro di distinguere cose, oggetti finanche affetti personali, confondendo parenti, badanti e infermiere l’una con l’altra. Sua figlia o presunta tale (Anne) ha il complicato e commovente dovere di raccogliere i cocci di una situazione vicina alla degenerazione!
La storia è comune e facile da trovare, quella della perdizione, spirituale e fisica, nel rapporto col proprio io, appassito da una memoria che pian piano scompare e che accompagna il fisico stanco e frustrato verso la fine dell’esistenza.
La regia – eccellente – di Zeller appaia con continui flashback e frame immobili e silenziosi il termine della lucidità di Anthony, in modo da accomunare nel peggiore dei modi il dramma in arrivo, sia in prima persona ma anche da chi ne condivide gli amori, ed agire perciò in simbiosi con l’animo del protagonista!
L’attenzione di Anthony verso oggetti particolari, uniche verità latenti nei pensieri interiori, gli lasciano un briciolo di limpidezza per capire che la sua vita è prossima all’epilogo, senza più dignità e virilità psichica, ma pregni esclusivamente di rimpianti e ricordi andati, figli perduti ed occasioni sfumate.
Se l’amato orologio lo riporta indietro e avanti in tempistiche distinte – immaginarie o meno – ma comunque felici e vitali, i quadri lo riconsegnano a realtà più monotone e uggiose, mentre le finestre aperte aprono lo sguardo attraverso la libertà, sotto forma di alberi e foglie che continuano però a cadere, spogliando l’essenza di vigoria e potenza vitale, spazzate poi definitivamente via da una leggera ma incessante brezza!
L’incapacità a difendersi e insieme contrattaccare quegli istanti che creano pathos e tensioni causa uno status invalidante, rischiando divisioni familiari e rotture insanabili, vengono portate alla luce da due stratosferici interpreti, grazie ai quali la tragedia cerebrale appena iniziata (?) diventa dolorosa, pietosa e desolante.
Se Hopkins è il deus ex machina di ogni antefatto, sublime mattatore di qualunque acting, unico nel trasbordare debolezze infinite di un fragile ultraottantenne prossimo alla decadenza, mantenendo altresì acceso quel piccante piglio british che lo ha reso icona, alla stessa stregua una fantastica Olivia Colman si spoglia dei panni eccentrici da humour lady e risulta perfettamente integrata in vesti subalterne, convincente nel far emergere i tormenti di chi ingurgita segretamente l’infausto dramma che sta per cambiare la vita di ognuno!
La pellicola di Zeller è un meraviglioso spaccato di storia comune che appassiona e commuove, e cede a fine proiezione un lascito importante: capire che tra un inizio e una fine ci possono essere improvvisi ostacoli che mettono a rischio realtà fin lì tranquille e serene.
Le eccezionalità di un film tanto perfetto vanno ascritte alle improvvisazioni delle due star, a splendidi dialoghi teatrali, alla location claustrofobica e ad una una regia disordinata e asfissiante!