Alexia da bambina ha avuto un grave incidente automobilistico. È sopravvissuta e le è stata impiantata una placca di titanio all’interno della testa. Una volta diventata adulta si esibisce come ballerina erotica in un motor show. Il metallo che ha nel cranio la rende una specie di cyborg sociopatico. Il disgusto per l’umanitá e i suoi istinti omicidi la spingeranno a compiere una serie di efferati delitti. In fuga dalla polizia incontrerá un pompiere che la scambierá per il figlio scomparso anni prima. Per la cultura occidentale, soprattutto dopo Platone, la purificazione del corpo visto come tomba dell’anima crea una profonda scissione tra la carne (il male) e la mente (il bene), “Titane” va oltre tale concetto e attua una fusione tra carne, anima e metallo. I corpi dei personaggi del film sono al centro della narrazione. Piercing sui capezzoli, corpi non più giovani intossicati e pompati dagli anabolizzanti (il fisico di Vincent Lindon ricorda quello di Harvey Keitel in “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara), nasi fracassati contro un lavandino, vagine che perdono l’olio delle automobili, neonati con la colonna vertebrale in titanio, pance che crescono e che devono essere nascoste perchè al loro interno vi è il frutto di un raporto sessuale tra una donna e una Cadillac, corpi martoriati, costantemente in movimento, nervosi, involucri martorizzati di anime dannate. La protagonista inizialmente ha un fisico dalle fattezze umane ma una psiche inumana, lentamente ma inesorabilmente, nel momento in cui il suo corpo verrá da lei stessa deturpato, la sua mente diventerá umana e finalmente in grado di provare dei sentimenti d’amore. Così facendo la Ducournau sovverte la visione del corpo e dell’anima tipicamente occidentale. “Titane” è cinema della crisi, come “The Canyons”, come “Maps to the stars” (la crisi del cinema), è cinema della fine, come “Melancholia”, come “4:44. Last day on earth” (la fine del mondo), è cinema della rinascita, come “Ema” e il “Suspiria” di Guadagnino. Per Julia Dicournau tutto deve essere visibile all’occhio, la sua è un’opera che non conosce mezze misure, che non ha paura del trash o di scadere nel ridicolo. È un apologo dark/punk, un oggetto oscuro che parla di un’umanitá sull’orlo del collasso, dove la donna è la portatrice di una nuova specie, esattamente come la figura di Rea nella mitologia greca. Rea era la figlia di Urano e Gea, i creatori dei Titani, essa generó dieci figli, tra di loro vi era anche Zeus, che dichiaró guerra ai Titani. Dopo una battaglia decennale riuscì a distruggerli facendo nascere l’Olimpo con le sue divinitá. “Titane” ha la forza e la presunzione di creare metaforicamente una nuova razza, ma possiede anche la sfrontatezza ed il coraggio di partorire un nuovo cinema totalmente libero dai dogmi dei generi cinematografici, cosí come da quelli commerciali, così come da quelli che caratterizzano i classici prodotti festivalieri. Potrebbe essere un horror ma non ne ha le classiche dinamiche. Potrebbe essere un film di fantascienza ma è troppo terreno e carnale. Potrebbe essere grottesco e comico, ma i momenti divertenti sono utilizzati per stemperare un susseguirsi di avvenimenti insostenibili. Non è un’operazione commerciale perchè la violenza fisica presente in quasi ogni fotogramma non lo rende certo un film per tutti. Non è un prodotto da festival, in quanto possiede una regia elaborata, un montaggio furoreggiante, una soundtrack onnipresente, e una sceneggiatuta che gioca ad accumulare avvenimenti incredibili, rifuggendo quindi dalla tipica scarnificazione, sia a livello di scrittura che di messa in scena, del cinema festivaliero. Un’opera di proporzioni monumentali, dove lo spettatore è chiamato ad essere masochista e a stare al gioco della regista, almeno sino a quando l’affetto, le attenzioni e l’amore del nuovo padre di Alexia, non la renderanno una donna in grado di gestite i suoi istinti primitivi e di scollarsi dall’originario e anaffettivo nucleo familiare. Ferocemente romantico.