Villeneuve conclude nel migliore dei modi una saga epica
Denis Villeneuve ripropone il seguito – e la fine – di Dune, dopo aver strabiliato nella prima e più difficile parte, quando il suo stile si dovette barcamenare per rendere lineare l’introduzione di un mondo talmente articolato che poteva scortarlo verso pericolose anarchie narrative.
Così non è stato e il regista franco canadese ostentò le proprie poliedricità per presentare i tantissimi protagonisti principali della vicenda ed inculcarli in questo magnifico mondo desertico.
Stavolta invece il suo racconto sfrutta quel lavoro e diventa molto più lineare, partendo perciò dal momento in cui Paul, a fianco dei Freemen, si convince che l’Eletto sia lui, e sotto la loro guida incarnerà le famose profezie sul salvatore di Arrakis che libererà il pianeta dagli oppressori.
Ed è qui che perfino amore e fiducia si accoppiano al coraggio e alle inizializzazioni che il prescelto dovrà superare, dando quindi al fantastico mondo di Frank Herbert anche un’effigie umana.
Non solo, in un’incandescente quanto ansiolitico viaggio tenebroso e surreale, acquisirà quelle incontrastabili capacità mentali che lo porteranno a spazzare via dall’intero universo le persecutorie tirannie nemiche.
Da qui Villeneuve parte perciò a fianco del suo Paul in una progressiva quanto travagliata saga eroica, che lo sottoporrà a prove resilienti, fisiche e psichiche, tappe fondamentali per farsi infine proclamare Kwisatz Haderach.
Tutto ciò non può che terminare in conflitto, il cui sentore il regista tiene nell’orbita sin dalle primordiali battute del film, che permangono persino nelle importanti e oscure scene dei rifugi Freemen o nella loro comunità, fra le rivelatrici conversazioni tra reverende e Bene Gesserit e nella preveggenza del protagonista.
Il direttore d’orchestra sfrutta la sua dote innata di raccontare storie limitando dialoghi e scritture suggestionate, conquistando eppure l’attenzione di chi segue con una visionaria narrazione immaginifica, scarna sì di inquadrature sfarzose ma che poi porta perfettamente alla fine dell’opera in maniera coerente e coesa, benchè il mondo Dune sia complesso e denso.
Lode elevata merita pure stavolta tutto l’universo Harkonnen, arricchito di un pezzo pregiato come Feyd-Rautha, una sprezzante cerchia di disumana ferocia che però dovrà addirittura poi soccombere al cinismo imperiale.
Tante ore di ripresa per portare a termine un lavoro che definire film è forse riduttivo, e che nei tempi moderni sarebbe stato più facile dividere in una più comune serie tv.
Tutto questo non avrebbe dato però la reale entità della magniloquenza registica di Villeneuve, forse unico nel panorama mondiale a poter portare a termine sui maxi schermi un’opera dalla portata infinita quale Dune è.
Astronavi, sabbie ostili e vermi alieni sono le chicche a cui il regista attinge e alle quali affida costantemente la scenografia di questa saga, in simbiosi con atmosfere sì dark ma appaiate a riprese infine sobrie, preferendole forse ad una più accurata ed esplicativa illustrazione della resa dei conti finale.
Anche questo è tuttavia un pregio, visto che l’esigua anima blockbuster di un cotanto monumentale prodotto e di un cast all star, cessa così quindi di esistere.
Villeneuve conclude perciò in modo maestoso un romanzo memorabile, facendo sfoggio dei marchi di fabbrica che rimandano alle atmosfere cult di Blade Runner 2049 e Arrival: sguardi minimalistici che accostano le invece sfarzose suggestioni militari, desertiche e inospitali che impregnano lo stile Dune.
Uno sforzo eccezionale viste le enormi – quasi non proponibili – sfaccettature che caratterizzavano la storia, un progetto ambizioso affrontato con espressioni dark e oniriche e che, ora si può ben dire, supera di gran lunga quello di David Lynch!