“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu, scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterá dentro di te” (Friedrich Nietzsche).
Nel New England agli albori del XX secolo, Ephrain arriva su un’isola deserta per lavorare come guardiano del faro.
A controllarlo c’è Thomas.
Ben presto Ephrain verrá assalito da strane ed inquietanti visioni e il rapporto con Thomas diverrá sempre piú complesso.
Robert Eggers, al suo secondo lungometraggio alza l’asticella delle ambizioni rispetto al precedente “The VVitch” e fa a pezzi ogni necessitá narrativa dando libero sfogo al suo talento visivo.
“The lighthouse” ingabbia i personaggi in un bianco e nero degno di un film espressionista, sceglie come formato il claustrofobico 4:3 e la pellicola 35 mm.
Eggers enfatizza al massimo l’irrealtá delle situazioni, Ephrain agisce come in un sogno o meglio in un incubo, quello che gli accade non ha razionalitá e la solitudine che lo avvolge quando ha le visioni è tipica degli incubi.
Ma il regista è interessato anche a scavare nella mente del protagonista e
a rivelarci i suoi traumi.
Mettendo i due personaggi principali l’uno di fronte all’altro in un ambiente isolato il film si fa bergmaniano, i rimandi a due capolavori del regista svedese si sprecano.
“Persona” e “L’ora del lupo”,sono questi i film di Bergman più vicini a “The lighthouse”.
Come in “Persona” abbiamo due personaggi su un’isola alla prese con costanti confronti/scontri, e come in “L’ora del lupo” anche il film di Eggers è notturno ed oscuro.
“The lighthouse” alla maniera di “L’ora del lupo” si immerge in quel lasso di tempo della giornata in cui molta gente muore, quell’ora in cui il sonno è piú profondo e gli incubi sono più reali.
Le ore notturne sono per Ephrain il momento in cui l’universo del suo inconscio lo divora portando in superficie orrori onirici che si fanno reali.
Con il passare del tempo il rapporto tra Ephrain e Thomas diviene sempre più intenso e appunto bergmaniano, e in un certo qual modo persino fassbinderiano.
I due si attraggono e respingono in una danza dalle dinamiche omoerotiche di servo/padrone.
Tra loro scorrono litri di alcool e se il piú giovane racconta il suo trauma, l’altro rimane un essere enigmatico ed impalpabile, incatalogabile, senza passato, una specie di cratura mistica ed irrazionale.
Ma Thomas esiste veramente o è solo la proiezione della mente malata di Ephrain?
In tal senso “The lighthouse” si fa la metafora del concetto del bisogno dell’altro per scoprire se stessi.
Un racconto buio e tempestoso che si nutre della pittura di Hopper, del cinema di Murnau, Dreyer, ma anche di quello di David Lynch e di quello del Von Trier di “Antichrist”, che rivomita su pellicola il pensiero di Nietzsche e alcune suggestioni provenienti dalla leggenda di Prometeo.
Cinema dell’isolamento, un’opera che sotto l’abbagliante bellezza e cura estetica, nasconde universi complessi ed inquietanti sulla mente e sulla natura vista come ancestrale culla del demonio.
Un film ambiguo che non fornisce risposte razionali allo spettatore: è la natura con tutte le sue avversitá a mettere a dura prova i personaggi o è la loro psiche malata ad interpretare negativamente dei fenomeni del tutto normali?
Psicologico, paranoico, allucinato; entrare dentro le immagini di “The lighthouse” significa perdersi in un mondo sconosciuto, entrare in un’altra dimensione spazio temporale; non rimane che lasciarsi trasportare alla deriva.