A Complete Unknown (2025)

Dentro la musica di Dylan in modo fedele, anche troppo

Inizio anni ‘60, un ragazzo solitario e misterioso dal Minnesota in sella alla Triumph Bonneville T100 e con una valigia piena di canzoni/poesie, si presenta al capezzale del suo idolo Woody Guthrie, che assiste assieme all’amico Pete Seeger all’improvvisato concerto in suo onore.

Il giovane si chiama Robert Zimmerman e il resto è storia!

Fare un biopic su Bob Dylan è semplicemente impossibile, se non “ridurlo” a un’epoca in particolare e di riferimento. Ciò che penna e cinepresa di James Mangold hanno perciò attuato in questo lungometraggio: trattare esclusivamente l’imponente innesto nella scena folk newyorkese del Greenwich Village e poi, di scatto e furtivamente, il passaggio alla “rivoluzione” elettrica del 1965, con tanto di malumore dei fan della prima ora.

Quel che d’altronde tratta il soggetto del libro “Dylan Goes Electric” di Elijah Wald.

Una sorta di passaggio di consegne fra i menestrelli di fine e inizio decennio e la psichedelia dei vari Beatles e Byrds, con e per l’appunto Bob Dylan nel mezzo ad alternare le sue poesie acustiche alla ritmica delle sale d’incisione, coadiuvato dagli Al Cooper o The Band di turno.

C’è spazio in un lasso di tempo così breve ma importante per le due relazioni sentimentali con Sylvie Russo e Joan Baez, l’una quasi a tranquillizzare il tormentoso e tumultuoso giovane e l’altra ad esaltarne l’intrinseca ribellione sociale e culturale.

Spaziale l’interpretazione di Timothèe Chalamet, oramai una garanzia, che si immedesima in fisico e animo all’iconico cantautore, facendone un ritratto perfetto sia per personalità che nelle magistrali ed impegnative performance musicali.

Il film, bello, scorrevole, appassionato e ricco di note vola via che è un piacere, specialmente per i fanatici della prima ora, coloro che non chiedevano altro di ascoltare la musica di Dylan, proprio per la prestazione del giovane attore, grazie al quale si resta incollati allo schermo e all’audio a venerare tutti i classici di quel primo repertorio, nessuno escluso dal regista.

Un “vestiario” pertinente e la fotografia splendente e vintage di un’era indimenticabile, che fece la spola fra la fine del bigottismo a stelle e strisce e l’inizio dell’età “floreale”, fanno poi il resto.

D’altronde chi meglio di Mangold poteva rischiare un’opera del genere, lui che con la poliedricità nel narrare storie reali e musicali ha già lasciato il segno.

La differenza, sostanziale, tra questo lavoro e quello su Johnny Cash, sta però nel non immischiarsi troppo – o per nulla – dentro le molteplici turbative del protagonista, cosa che fece di Walk the Line un capolavoro a tutti gli effetti.

Lì, il ritratto che rimase appiccicato all’iconico cantautore a fine proiezione, fu quello di un uomo autodistruttivo che riuscì però a salvare la sua esistenza grazie a musica e amore, generando perciò empatia mista a tristezza e tenerezza verso una persona dall’alone sì generazionale, ma che infine venne spogliato di tutte le ricchezze esteriori per restare nudo con la propria fragilità.

Qui invece, anche per il beneplacito sulla sceneggiatura di Bob Dylan stesso (“Vai con Dio”), restio da sempre a parlare e far parlare di sé, l’immagine che ne viene ricavata è quella classica della rockstar tormentata, tenebrosa, affascinante e viziosa, anche se di droghe – che ci sono state eccome – non si fa cenno quasi per nulla.

La passione di Chalamet compensa e molto questa pecca, dando intrinsecamente a Dylan un’iconografia giusta e onesta, quando abbozza negli appunti le grida di dolore verso underdog e oppressi, ma a livello cinematografico l’assenza totale di identificazione verso il Dylan uomo si sente in maniera pesante.

Chi è, da dove viene, cosa ha fatto prima e perché si porta dietro il peso di qualcosa di intangibile è d’altronde ciò che la scrittura di Mangold e Cocks fa chiedere più volte a Sylvie, senza ottenere riscontri.

La raffigurazione del Zimmerman reale e di una vita/odissea densa di lotte, credenze religiose e umanitarie, relazioni amorose e lavorative, passioni, controversie sociali, eccessi e risse, non coincide per nulla con l’effige clandestina che A Complete Unknown gli lascia in dote, rafforzando non il ritratto del menestrello deluso da una società che sopprime, abusa e delude gli ultimi, ma quasi quella di un supereroe cupo, distaccato e impertinente venuto da lontano a “salvare” le anime dei ribelli, tradendo però il suo mentore disilluso.

Chi e per quale motivo vuole essere il contrario di ciò che “quelli vogliono che io sia” rimane un mistero.

Seppur mai radicale quanto Todd Haynes, è invece apprezzabile il tentativo di Mangold di “umanizzare” Dylan a livello artistico, ponendo dunque l’accento sulla accuratezza a rapportarsi con gli altri, a evolversi ed a modificare stile e partner diversi in giro per quel lato d’America.

Il film pertanto resta un’eccellente – e fedele – riproduzione di quel che le enciclopedie rock’n roll’ ci hanno raccontato a livello musicale del mitico artista in quel lasso di tempo.

Un viaggio cinematografico accompagnato costantemente alla musica, e l’unico modo per carpirne l’animo, il credo e la ribellione celata della sua anima è leggerlo nei testi, quel che l’imperscrutabile Bob Dylan ha d’altronde sempre desiderato!

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