Un’epopea mastodontica raccontata dalla classe infinita di Martin Scorsese
La maestosa capacità di Scorsese nel raccontare epopee particolari questa volta si arricchisce di un’inedita primizia al crepuscolo, con la quale aprire le menti su ciò che è stato agli albori di un’era quasi dimenticata e forse mai totalmente conosciuta.
Ernest Burkhart torna dalla guerra nella nativa Fairfax, Oklahoma anni ‘20, aiutato dallo zio William Hale a procacciarsi occupazione dentro la Nazione Indiana degli Osage, tribù improvvisamente divenuta ricca grazie alla scoperta del petrolio nei loro terreni originariamente infruttuosi.
Il lavoro da trovare in realtà non consiste altro che far innamorare le donne del luogo, sposarle e mettere le mani sulle loro ricchezze. Ed è così che l’uomo, vile e senza personalità, si accoppia con Molly, vivendo però sino alla fine dei suoi giorni col dilemma se l’amore che progressivamente è andato crescendo sia stato superiore alla brama di possesso che lo affiancava.
Con la costante ombra di William sullo sfondo, muoiono uno dietro l’altro tutti gli Osage, morti strategiche organizzate con l’aiuto di conquistatori disperati pronti a tutto, aspettando poi di rimpiazzare completamente la cittadinanza di nativi residente e mettere le mani sui profitti, affidandosi infine ad una legge corrotta e traviata.
Rispetto ai costumi ed usanze meschine trattate nei suoi precedenti capolavori, dove mafia, sindacati e politicanti collusi, prostituzione ed inganni la facevano da padrone, in Killers of the Flowers Moon si ripete quindi sostanzialmente la stessa dinamica, con la piccola differenza di dover partire però dalle radici della storia, e rivelare passo dopo passo come menzogne, imbrogli, smania di egemonia e conquista del potere anche qui saranno progressivamente oggetto del contendere fra uomini!
Un film importante forse più di ogni altro racconto di Scorsese, perché fa capire quanto razzismo e dominio su diversità etniche ma soprattutto verso il gentil sesso abbiano origini ancestrali e siano alla base di qualunque tipo di ingiustizia sociale.
Il regista lascia in dote un’immagine femminile quasi celestiale, appaiata a forza mentale, orgoglio, dignità e consapevolezza delle brutalità del maschio bianco a caccia di dote, pronto a tutto, perfino a fingere amore per poi saltare il banco e impadronirsi di anima e materia.
Il ritratto di femmina Osage è il miglior spot che ogni donna dovrebbe conservare per far valere i suoi diritti e palesare la propria superiorità sul sesso più forte (prepotente): intelligenti, impavide e consce di quanto il denaro in loro possesso trasformi gli eventi proseguono tuttavia una decorosa esistenza, a costo di piangere e soffrire di fronte alle continue perdite e tragedie che sono obbligate ad affrontare!
Un’opera mastodontica che chiude definitivamente il cerchio sullo stereotipo Terra dei Sogni – Terra di Successo, ma che invece mette in risalto l’egoismo e la realizzazione delle proprie fortune all’interno di essa ad ogni costo, persino defraudando terre e beni di chi all’origine se li è conquistati col sudore o ereditati. Qui infatti non ci sono muri che impediscono immigrazione e pseudo “invasioni” dall’esterno, ma è già dentro a questa immaginaria barriera che Scorsese narra il principio di un’aggressione fraudolenta da parte di menti mefistofeliche e locali che si protrarrà fino ai giorni nostri.
Non è un caso che Scorsese abbia dato alla luce questa gemma nel periodo più truculento fra palestinesi e israeliani, sensibilizzando ancor di più su cosa l’uomo può fare per impossessarsi di beni altrui.
Lo stile, shockante e al limite del crepuscolare, è sempre lo stesso, sin dai primordiali impatti che la pellicola offre: drammi iniziali nel presente ma subito dopo cancellati da tenere e gioiose inquadrature amatoriali che rimandano a felicità passate, un velocissimo mini preambolo a tinte in bianco e nero, super 8, 16 e 8 mm che catapultano poi di nuovo nell’attualità! Un’attualità che colpisce freddamente per cinismo, dove ogni morte indigena che si consuma con costanza appare infine quasi come prassi più che tragedia, dato che il fine ultimo non è altro quello di sostituire una comunità grezza ma ricca con l’altra altolocata e abile a governarne le proprietà.
A fare da contorno a questo disprezzabile disegno c’è l’amore, vero, finto, accondiscendente o artefatto che sia ma sempre presente dall’inizio alla fine, una sorta di contrappasso che Scorsese appaia continuamente a odio e (dis)interesse.
DiCaprio, De Niro e la sorprendente Lily Gladstone bucano lo schermo, dividendo la scena con le tre caratteristiche principali che Scorsese tenta di lasciare in eredità: mediocrità e complessità d’animo, tirannia e bramosia di comando e potere e serietà, ritegno e romanticismo!
I tempi sono diversi da quelli odierni, ma l’evolversi degli eventi fa si che le similitudini siano perfette, dato che nella strage Osage Scorsese rimanda nettamente a quelle dei gangster di metà secolo e al dollaro fumante in tasca agli yuppies.
Superati gli 81 anni il regista ci regala l’ennesima pietra miliare di una carriera inarrivabile, un dono che coniuga rappresentazioni d’epoca a dialoghi importanti su ritmi e musiche incessanti, salti temporali e utopistiche lezioni umane, il male estremo ritratto con immagini terribili di corpi smembrati ma anche e soprattutto tanto amore e unità di intenti, spine dorsali del film che permangono fino alla fine, mettendo in ombra persino la drammatica tragedia che accomuna nativi, colonizzatori e l’America tutta!